29/11/18

Mamma, quel vino è generoso - addio alla madre : CAVALLERIA RUSTICANA - (Mascagni)


Turiddu, sfidato a duello, saluta per l'ultima volta la madre.
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Cavalleria rusticana (opera)


Cavalleria rusticana è un'opera in un unico atto di Pietro Mascagni, su libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci, tratto dalla novella omonima di Giovanni Verga.
Andò in scena per la prima volta il 17 maggio 1890 al Teatro Costanzi di Roma, con Gemma Bellincioni e Roberto Stagno.
Viene spesso rappresentata insieme a un'altra opera breve, Pagliacci (1892) di Ruggero Leoncavallo. Questo singolare abbinamento venne proposto fin dall'anno seguente il debutto di Pagliacci , al Metropolitan Theater di New York il 22 dicembre 1893,[1] e venne legittimato dallo stesso Mascagni, che nel 1926, al Teatro alla Scala di Milano, diresse, nella stessa soirée, entrambe le opere. Cavalleria rusticana veniva talvolta eseguita insieme a Zanetto, dello stesso compositore.

Nascita dell'opera

PIETRO MASCAGNI
Testo dell'aria a questo link.

Cavalleria rusticana fu la prima opera composta da Mascagni ed è certamente la più nota fra le sedici composte dal compositore livornese (oltre a Cavalleria rusticana, solo Iris e L'amico Fritz sono rimaste nel repertorio stabile dei principali enti lirici). Il suo successo fu enorme già dalla prima volta in cui venne rappresentata al Teatro Costanzi di Roma, il 17 maggio 1890, e tale è rimasto fino a oggi.

Nel 1888 l'editore milanese Edoardo Sonzogno annunciò un concorso aperto a tutti i giovani compositori italiani che non avevano ancora fatto rappresentare una loro opera. I partecipanti dovevano scrivere un'opera in un unico atto, e le tre migliori produzioni (selezionate da una giuria composta da cinque importanti musicisti e critici italiani) sarebbero state rappresentate a Roma a spese dello stesso Sonzogno.

Mascagni, che all'epoca risiedeva a Cerignola, in provincia di Foggia, dove dirigeva la locale banda musicale, venne a conoscenza di questo concorso solo due mesi prima della chiusura delle iscrizioni e chiese al suo amico Giovanni Targioni-Tozzetti, poeta e professore di letteratura all'Accademia Navale di Livorno, di scrivere un libretto. Targioni-Tozzetti scelse Cavalleria rusticana, una novella popolare di Giovanni Verga come base per l'opera. Egli e il suo collega Guido Menasci lavoravano per corrispondenza con Mascagni, mandandogli i versi su delle cartoline. L'opera fu completata l'ultimo giorno valido per l'iscrizione al concorso. In tutto, furono esaminate settantatré opere e il 5 marzo 1890 la giuria selezionò le tre opere da rappresentare a Roma: Labilia di Nicola Spinelli, Rudello di Vincenzo Ferroni, e Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni.[1]

Trama

A Vizzini un mattino di Pasqua il giovane Turiddu, prima di partire per il servizio militare, giura il suo amore a Lola che dopo un anno si sposa con Alfio, il carrettiere del paese. Così egli corteggia Santuzza che poi trascura per sorvegliare l'abitazione di Alfio, che è andato al lavoro, nella speranza d'incontrare Lola però Santuzza preoccupata da ciò, cerca Lucia la madre di Turiddu e le racconta tutto. 

All'arrivo di Turiddu tra i due giovani scoppia una lite, che al passare di Lola finisce perché Turiddu la segue mentre si avvia in chiesa. Santuzza offesa decide di vendicarsi dicendo ad Alfio di ritorno dal lavoro che Lola l'ha tradito. Finita la messa, Turiddu offre da bere agli amici all'osteria della madre. Offre un bicchiere anche ad Alfio, il quale lo rifiuta, e gli morde l'orecchio sfidandolo a duello. 

Prima di recarsi alla sfida mortale, Turiddu saluta la madre Lucia e le chiede di avere cura di Santuzza, il duello finisce con le grida di una popolana che annuncia la morte di Turiddu. 

29/10/18

PRIMA ESEZUZIONE ASSOLUTA : Pranvera (Paolo Marzocchi)

 

Paolo Marzocchi, compositore contemporaneo,  per il brano PRANVERA ha attinto alla musica folklorica albanese e in particolare alla fortissima tradizione musicale della città di Scutari (Shkodra).
 

Il pezzo, scritto per il Festival di Lucerna, è stato rielaborato in una nuova versione per doppio trio e banda appositamente per Floema.

Questa versione è in prima esecuzione assoluta.
 

Bande della “Filarmonica Borgognoni” di Pistoia e della “Verdi” di Fognano. 

Orchestra Leonore: (Clarice Curradi al violino, Luca Bacelli al violoncello e i percussionisti Gregory Lecoeur, Ivan Pennino e Diego Desole) insieme alla pianista Irene Novi.




linealibera.info

ORCHESTRE E BANDE AL MODERNO



Uno spettacolo davvero per tutti che ha entusiasmato i presenti con musiche di grande pregio per la presenza di tanti strumenti insoliti


L’Orchestra Leonore con due bande, confuse in armonie
AGLIANA. Se la Musica unisce la gente, ecco che ieri sera al Teatro Moderno di Agliana, si è ascoltato – e anche veduto, lo spettacolo non è stato meno interessante – un insieme di orchestra da camera confusa con le Bande della “Filarmonica Borgognoni” di Pistoia e della “Verdi” di Fognano che hanno davvero incontrato il pubblico.

Insieme, gli oltre 35 musicisti, hanno eseguito una prima mondiale assoluta del brano Pranvera del compositore contemporaneo Paolo Marzocchi, di grande pregio per come arricchito dalla presenza di tanti strumenti:archi, fiati e percussioni e dalla bravura dei musicisti.

Il pezzo Pranvera, ispirato dalla tradizione musicale balcanica, è stato molto applaudito dal pubblico per la sua effervescenza armonica che ha impegnato gli esecutori in una davvero difficile performance senza accusare nessuna sbavatura.


Un momento del concerto
Il Concerto è poi proseguito con i musicisti di Floema che hanno proposto al pubblico una varietà di musiche del grande compositore russo Schostakowitsch che con il particolare contributo di tamburi, vibrafono, xilofono e glochenspiel, strumenti a percussione insoliti, ma che hanno davvero coinvolto il pubblico presente.

Il Concerto, breve ma intenso si è concluso nell’incontro tra il pubblico e i musicisti, che hanno invitato parte della platea a salire sul palco per il bis, generosamente concesso.
Floema ha presentato il suo programma per la stagione 2018/19 che potrete consultare sul sito www.fondazionepromusica.it.


[Alessandro Romiti]

04/10/18

Autunno - Le quattro stagioni (Antonio Vivaldi)




"Il cimento dell'armonia e dell'invenzione" è una raccolta di dodici concerti per violino, archi e basso, composto da Antonio Vivaldi. Le quattro stagioni sono i primi 4 concerti di questa opera, pubblicati nel 1725. Ogni concerto delle 4 stagioni si divide in 3 "movimenti": il primo ed il terzo in tempo Allegro o Presto, il secondo in tempo "Adagio o Largo. Ogni concerto si riferisce a ciascuna delle quattro stagioni: "Primavera", "Estate", "Autunno" e "Inverno". L'Autunno è un concerto in Fa maggiore. In questo concerto Vivaldi descrive il dio romano Bacco. Nella prima parte (in Allegro) descrive la vendemmia, nella seconda parte (in Adagio molto) descrive l'ebbrezza provocata dal vino, mentre nell'ultima parte (in Allegro) descrive la caccia (in Allegro).

 AMIL Music



uradio.org

L'Autunno di Vivaldi: Bacco, dormite e cacce

Questo concerto fa parte di un ciclo dal titolo Le quattro stagioni: abbiamo già parlato della Primavera e dell’Estate in questo e in questo articolo. Ascoltiamolo insieme su YouTube.
Anche questo concerto, così come gli altri, si articola in tre movimenti (Allegro – Adagio molto – Allegro) e prende ispirazione per il suo tema da un sonetto.


Antonio Vivaldi

 

Allegro

Celebra il Vilanel con balli e Canti
Del felice raccolto il bel piacere
E del liquor di Bacco accesi tanti
Finiscono col Sonno il lor godere

 

Adagio molto

Fa’ ch’ ogn’ uno tralasci e balli e canti
L’ aria che temperata dà piacere,
E la Staggion ch’ invita tanti e tanti
D’ un dolcissimo sonno al bel godere.

 

Allegro

I cacciator alla nov’alba à caccia
Con corni, Schioppi, e cani escono fuore
Fugge la belva, e Seguono la traccia;
Già Sbigottita, e lassa al gran rumore
De’ Schioppi e cani, ferita minaccia
Languida di fuggir, mà oppressa muore.

 

 

Il primo movimento: l’allegra festa della vendemmia.

Nell’Autunno Vivaldi descrive la figura di Bacco, dio del vino e dell’ebbrezza. Il primo movimento, infatti, si apre con una panoramica su una vigna, dove alcuni contadini stanno vendemmiando. Il clima è festoso: il raccolto è abbondante, il vino scorre a fiumi. Dopo il lavoro, i contadini festeggiano con un grande banchetto. Qualcuno già cade stordito dai fumi dell’alcool; gli adulti sghignazzano dietro ai giovani che barcollano ubriachi. Uno di loro, un contadinello appena uscito dall’adolescenza, si addormenta tranquillo con la schiena appoggiata ad un tronco, ignaro della confusione che regna attorno a lui. Tiene ancora in mano il fiasco di vino, e sorride beato. Chissà cosa sta sognando… A pochi metri da lui, la festa continua fino a tarda notte, quando tutti si lasciano vincere dalla sbronza e si addormentano.

 

 

Il secondo movimento: gli ubriachi tra le braccia di Morfeo.

Nel secondo movimento i contadini si riposano dalla fatica del lavoro e della festa. Il contadinello di prima apre un occhio e vede che tutti i suoi compagni sono crollati. Sbadiglia e si tira su, barcollando, e si aggira fra i dormienti con ancora il fiasco in mano. Beve un altro bicchiere di vino, mangia un pezzo di pane avanzato, poi lascia scorrere lo sguardo attorno a lui. Incredibile, dormono veramente tutti. E’ l’alba. Il suono di un corno da caccia lo distrae dalle sue meditazioni.

 

 

Il terzo movimento: la caccia.

I cacciatori irrompono nella quiete (terzo movimento). Attraversano la pianura a pochi passi dai contadini ancora addormentati e spariscono nel bosco. I cani, a molti metri da loro, abbaiano furiosamente; si sentono già i primi colpi degli schioppi. Una cerva si slancia in una folle corsa: sente i ringhi dei cani a pochi passi da lei, le voci degli uomini la terrorizzano. La sua snella figura riesce a districarsi agilmente tra i cespugli, e trova per qualche istante un rifugio. Riprende un po’ fiato, forse è riuscita a seminarli. Una pallottola la colpisce improvvisamente al fianco e lei torna a fuggire, ma il dolore le impedisce di correre velocemente come prima. Un cane le azzanna la zampa: ormai non può più fare nulla. I cacciatori hanno vinto.
 

Federica Pisacane.



23/09/18

Strumenti antichi - Stefano Galeotti (1723 - 1790) : Trio in sol maggiore


Tesori musicali della Biblioteca Forteguerriana
 

Concerto con esecuzione di brani da manoscritti musicali antichi, conservati presso la Biblioteca Forteguerriana.

STEFANO GALEOTTI (1723-1790)
 

Martino Noferi, oboe
Marica Testi, flauto traverso
Ottaviano Tenerani, clavicembalo
 

Strumenti dell’Accademia internazionale di organo e musica antica “Giuseppe Gherardeschi”.

Flauto traverso Johannes Hyacint Rottemburgh, ca 1720 (originale; dieci esemplari nel mondo).


Oboe Giovanni Maria Anciuti, 1725 (originale; dodici esemplari nel mondo).


Clavicembalo da Carlo Grimaldi,1697 (copia).


Clavicembalo da Johannes Daniel Dulcken, 1750 (copia).


Chiesa dello Spirito Santo

01/09/18

150 anniversario G. Rossini : LA DANZA (Tarantella napoletana)



  
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Tarantella napoletana, sì, ma di Rossini

La vicenda artistica di Gioachino Rossini (1792-1868) è ben nota.
Dopo un breve ed intensissimo periodo creativo, nel quale musicò decine di opere liriche, dalle farse alle commedie, dalle tragedie alle opere serie e semiserie, sfornando capolavori assoluti come Il Barbiere di Siviglia, La gazza ladra, Mosè, Guglielmo Tell, per citarne solo alcuni, improvvisamente, dopo il Guglielmo Tell nel 1829, il genio pesarese depose penna e carta pentagrammata e smise di comporre.

Una ventina di anni di attività forsennata, con una quarantina di opere, talvolta anche 4 o 5 all'anno. Poi, il silenzio, e la sua ipocondria, ravvivata un po’ dalla buona cucina.
Ma gli affetti delle persone care (in particolare la sagace moglie Olympe Pelissier) lo portarono talvolta a rompere questo “silenzio musicale”, con quelli che lui chiamò con umorismo “peccati di vecchiaia”.

Ma furono dei capolavori, soprattutto religiosi: lo Stabat Mater (1841) e in particolare la Petite Messe Solennelle (1863), per coro, armonium e doppio pianoforte, una delle cose più belle di musica sacra mai scritte.
Tra i “péchés de vieillesse” si devono ricordare anche le “Soirées Musicales” (1835), dodici canzoni per voce e pianoforte, di vario carattere, dall'aulico al popolaresco, dal sentimentale al drammatico.

Tra queste Serate Musicali brilla per vivacità e inventiva la celeberrima tarantella napoletana, intitolata “La Danza”.

La Danza, tarantella napoletana
Già la luna in mezzo al mare,
mamma mia,si salterà;
l'ora è bella per danzare,
chi è in amor non mancherà.
Già la luna in mezzo al mare,
mamma mia,si salterà;
l'ora è bella per danzare,
chi è in amor non mancherà.
Già la luna in mezzo al mare,
mamma mia si salterà.
Presto in danza a tondo a tondo,
donne mie, venite qua;
un garzon bello e giocondo
a ciascuna toccherà.
Finché in ciel brilla una stella
e la luna splenderà,
il più bel con la più bella
tutta notte danzerà.
Mamma mia, mamma mia,
già la luna è in mezzo al mare,
mamma mia, mamma mia,
mamma mia,si salterà,
frinche, frinche, frinche, frinche frinche,
mamma mia, mamma mia,
mamma mia, si salterà,
la la la ra la ra .....
Salta, salta, gira, gira,
ogni coppia in cerchio va;
già s'avanza,
si ritira e all'assalto tornerà:
Salta, salta, gira, gira,
ogni coppia in cerchio va;
già s'avanza,
si ritira e all'assalto tornerà.
Serra, serra colla bionda,
colla bruna va qua e là,
colla rossa va a seconda,
colla smorta fermo sta.
Viva il ballo a tondo a tondo,
sono un re, sono un pascià;
è il più bel piacer del mondo,
la più cara voluttà.
Mamma mia, mamma mia,
Già la luna in mezzo al mare,
mamma mia,mamma mia,
mamma mia, si salterà;
frinche, frinche, frinche,
frinche, frinche, frinche,
mamma mia si salterà,
frinche, frinche, frinche,
frinche, frinche, frinche,
mamma mia si salterà,
la la la ra la ra .....

15/04/18

Ave Maria (Franz Biebl)

Miserere mei - (Gregorio Allegri)

 
 
 
 
 
 
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Miserere (Allegri)

Gregorio Allegri


Il Miserere (latino: "Abbi pietà") è un'opera a cappella di Gregorio Allegri basata sul salmo 50[1] della Bibbia, composto probabilmente intorno al 1630 durante il pontificato di Urbano VIII, da eseguire a luci spente nella Cappella Sistina durante il mattutino come parte dell'ufficio delle tenebre della Settimana Santa.
È l'ultimo dei dodici miserere composti e cantati in Sistina dal 1514 ed è anche il più famoso. Di questo brano non si comprende l'effetto alla sola lettura per via della grande semplicità delle note, ma esisteva nella Cappella Sistina un'antica tradizione esecutiva che ne faceva risaltare i meriti, dandogli una sfumatura espressiva unica.
Il brano era considerato così sacro che il papa, per preservarne l'unicità, proibì che fosse trascritto e proibì che le eventuali copie uscissero dalla Cappella Sistina, tanto che l'esecuzione altrove era punita con la scomunica.[2]

Storia

Il miserere di Allegri è una composizione a nove voci per due cori, uno di cinque voci e uno di quattro, ed è generalmente riconosciuto come uno dei migliori esempi di polifonia rinascimentale. Tre copie autorizzate vennero distribuite fuori dalla Cappella Sistina prima del 1770: una a Leopoldo I d'Asburgo, una al re del Portogallo e una a Giovanni Battista Martini. Nessuno di loro, tuttavia, riuscì a riprodurre la bellezza del miserere così come veniva cantato nella Sistina. Il quattordicenne Wolfgang Amadeus Mozart, in visita a Roma, ascoltò il miserere di Allegri l'11 aprile 1770 durante l'ufficio delle tenebre del Giovedì Santo, che si canta la sera del Mercoledì Santo.[3] Il Giovedì Santo lo trascrisse interamente a memoria, ritornando nella Cappella Sistina il venerdì successivo, 13 aprile, per fare piccole correzioni.[4]
Leopold Mozart, padre di Wolfgang, in una lettera ad Anna Maria Pertl del 14 aprile 1770 comunicò che:
« A Roma si sente spesso parlare del famoso Miserere, tenuto in tanta considerazione che ai musicisti della cappella è stato proibito, sotto minaccia di scomunica, di portarne fuori anche una sola parte, copiarlo o darlo a chicchessia. Noi però l'abbiamo già, Wolfgang l'ha trascritto a memoria, e, se non fosse necessaria la nostra presenza al momento dell'esecuzione, noi l'avremmo già inviato a Salisburgo. Infatti la maniera di eseguirla conta più della composizione stessa, e quindi provvederemo noi stessi a portarla a casa.[5] »
Quando la Pertl rispose preoccupata, Leopold precisò in una lettera del 19 maggio successivo:
« Non c'è la minima ragione di essere in ansia [...] Tutta Roma e persino il Papa stesso sa che l'ha trascritto. Non c'è assolutamente niente da temere, al contrario, l'impresa gli ha fruttato un grande credito.[5] »
Dopo la trascrizione di Mozart, la minaccia della scomunica venne tolta. Tempo dopo, Mozart incontrò il compositore inglese Charles Burney, il quale si fece dare la copia, la confrontò con la trascrizione che il papa aveva concesso a Giovanni Battista Martini e la portò a Londra, dove venne pubblicata nel 1771. L'edizione di Burney, tuttavia, non includeva la particolare ornamentazione rinascimentale non scritta, ma semplicemente tramandata da interprete a interprete nella Cappella Sistina, che rendeva il brano tanto lodato. Nel 1840 il sacerdote romano Pietro Alfieri pubblicò un'edizione del miserere di Allegri con l'intento di preservare la prassi esecutiva della Cappella Sistina, edizione che comprendeva anche l'ornamentazione.
L'accuratezza nelle esecuzioni, che esisteva un tempo nella Sistina, era un requisito indispensabile per la perfetta riuscita del miserere: Leopoldo I d'Asburgo, infatti, ne chiese al papa Innocenzo XI una copia da utilizzare nella sua cappella imperiale. La richiesta gli fu accordata. Tuttavia, le esecuzioni viennesi non risultarono altro che un corale poco entusiasmante. L'imperatore credette allora che il maestro di cappella della Sistina gli avesse inviato la copia di un altro miserere, se ne lamentò con il papa e lo fece cacciare. Il papa stesso fu così offeso da quello che credeva essere stato un inganno del suo maestro che, per molto tempo, non volle vederlo né ascoltare ciò che avrebbe voluto dire in sua discolpa. Alla fine, però, il maestro di cappella ottenne che uno dei cardinali perorasse la sua causa, facendo sapere al pontefice che la perfetta riuscita del miserere poteva essere realizzata solo grazie alla grande competenza canora della Cappella Sistina. Ciò spiegava perché il pezzo in questione, anche se fedelmente trascritto, non poteva produrre lo stesso effetto se eseguito altrove.[6]
Innocenzo XI, che non si intendeva di musica, benché non riuscisse a capire come le stesse note potessero sembrare così diverse se eseguite in luoghi diversi, scrisse una difesa che venne inviata a Leopoldo I. Quest'ultimo pregò allora il papa di mandare a Vienna qualcuno dei cantori della Sistina affinché istruissero quelli della cappella imperiale sul modo di eseguire il miserere. Il pontefice accordò il favore, ma, prima che i musicisti arrivassero a Vienna, nel 1683 scoppiò la guerra contro i turchi e l'imperatore dovette lasciare la città. Il miserere, perciò, non venne mai eseguito fuori Roma.[7]
Il miserere di Allegri venne eseguito nella Cappella Sistina, pressoché senza interruzioni, fino al 1870.[8] Sospesa per 141 anni, la composizione è stata nuovamente eseguita, per la prima volta, il 9 marzo 2011, alla presenza del papa Benedetto XVI, nella basilica di Santa Sabina in Roma durante la celebrazione del Mercoledì delle Ceneri.[9]

Testo

« Miserere mei, Deus: secundum magnam misericordiam tuam.
Et secundum multitudinem miserationum tuarum, dele iniquitatem meam.
Amplius lava me ab iniquitate mea: et a peccato meo munda me.
Quoniam iniquitatem meam ego cognosco: et peccatum meum contra me est semper.
Tibi soli peccavi, et malum coram te feci: ut iustificeris in sermonibus tuis, et vincas cum iudicaris.
Ecce enim in iniquitatibus conceptus sum: et in peccatis concepit me mater mea.
Ecce enim veritatem dilexisti: incerta et occulta sapientiae tuae manifestasti mihi.
Asperges me, hyssopo, et mundabor: lavabis me, et super nivem dealbabor.
Auditui meo dabis gaudium et laetitiam: et exsultabunt ossa humiliata.
Averte faciem tuam a peccatis meis: et omnes iniquitates meas dele.
Cor mundum crea in me, Deus: et spiritum rectum innova in visceribus meis.
Ne proiicias me a facie tua: et spiritum sanctum tuum ne auferas a me.
Redde mihi laetitiam salutaris tui: et spiritu principali confirma me.
Docebo iniquos vias tuas: et impii ad te convertentur.
Libera me de sanguinibus, Deus, Deus salutis meae: et exsultabit lingua mea iustitiam tuam.
Domine, labia mea aperies: et os meum annuntiabit laudem tuam.
Quoniam si voluisses sacrificium, dedissem utique: holocaustis non delectaberis.
Sacrificium Deo spiritus contribulatus: cor contritum, et humiliatum, Deus, non despicies.
Benigne fac, Domine, in bona voluntate tua Sion: ut aedificentur muri Ierusalem.
Tunc acceptabis sacrificium iustitiae, oblationes, et holocausta: tunc imponent super altare tuum vitulos. »

Gli altri miserere della Cappella Sistina

Secondo l'abate Giuseppe Baini,[10] quello di Gregorio Allegri era solo l'ultimo dei dodici miserere composti per essere eseguiti nella Cappella Sistina. Due volumi manoscritti dell'archivio della cappella racchiudevano tutti i miserere cantati in Sistina dai tempi più remoti a eccezione del primo, composto nel 1514 sotto il pontificato di Leone X, che fu giudicato non abbastanza bello per poter entrare nella raccolta.
Nel 1517 Costanzo Festa, che era appena stato accolto come cantore nella Sistina, scrisse due versetti di un miserere, uno a quattro voci e l'altro a cinque, ed è questo il primo che si trova nella raccolta. Il secondo è di Luigi Dentice, composto a quattro e cinque voci. Il terzo, di cui non si hanno che due versetti a quattro voci, è di Francisco Guerrero. Il quarto miserere è di Giovanni Pierluigi da Palestrina, composto da due versetti a quattro e cinque voci.
Il quinto è di Teofilo Gargano, che entrò nel collegio dei cantori della Sistina il 1º maggio 1601. Il sesto miserere è di Giovanni Francesco Anerio. Felice Anerio, invece, è l'autore del settimo, comprendente un versetto a nove voci. L'ottavo miserere, molto inferiore ai precedenti, è di autore sconosciuto. Il nono è composto dai già citati due versetti di Palestrina, con l'aggiunta di altri due versetti a nove voci di Giovanni Maria Nanino. Il decimo, a quattro voci, con un ultimo versetto a otto voci, è di Santo Naldini, entrato in Sistina il 23 novembre 1617. L'undicesimo, a quattro voci e con l'ultimo versetto a otto, è di Ruggero Giovannelli, aggregato il 17 aprile 1599.
Il dodicesimo, alternativamente a quattro e cinque voci e con l'ultimo versetto a nove, è quello di Gregorio Allegri. L'uso di scrivere un miserere per la Cappella Sistina poi cessò, in quanto quello di Allegri fu trovato così bello che non si credette possibile poter fare di meglio. Nondimeno egli lo corresse a più riprese e cambiò più volte l'ordine delle parti al fine di ottenere un effetto migliore. Fu in seguito rivisto e perfezionato da diversi cantanti e compositori che vi aggiunsero tutto ciò che credevano più adatto a rendere l'esecuzione soddisfacente.
Il miserere di Allegri si cantava nelle mattutini del Giovedì Santo e del Sabato Santo. Il Venerdì Santo c'era l'uso di cantare tanto il miserere di Felice Anerio quanto quello di Naldini. Nel 1680 Alessandro Scarlatti scrisse un nuovo miserere per il servizio della Cappella Sistina, ma la sua composizione fu giudicata deludente. Venne però eseguito lo stesso per rispetto alla reputazione del suo autore e venne cantato il Venerdì Santo del 1680 insieme a quelli di Anerio e di Naldini. Nel 1714 Tommaso Bai compose un nuovo miserere a quattro e cinque voci, con l'ultimo versetto a otto sul modello di quello di Allegri, e questa composizione venne ritenuta tanto bella che da allora si cessò di cantare i miserere di Anerio e di Scarlatti per eseguire solo, dal 1714 al 1767, quelli di Allegri e di Bai.
Nel 1768 Giuseppe Tartini fece dono alla Cappella Sistina di un miserere di sua composizione a quattro e cinque voci e con l'ultimo versetto a otto. Fu eseguito quello stesso anno, ma non poté reggere il confronto con quelli di Bai e di Allegri e venne perciò accantonato. Nel 1777 Pasquale Pisari, su richiesta dei cantori della Sistina, compose un nuovo miserere. Anche questo, però, venne eseguito solo una volta, nel 1777, e poi dimenticato. Dal 1778 al 1820, dunque, i miserere di Bai e di Allegri furono gli unici due a essere eseguiti in Sistina. Nel 1821, dietro esplicita richiesta di Pio VII, l'abate Giuseppe Baini compose un nuovo miserere, il quale fu giudicato degno di essere eseguito insieme a quelli di Bai e Allegri.

02/04/18

Moto perpetuo (Niccolò Paganini)

 

Paganini ai suoi tempi era considerato "posseduto" perchè era talmente bravo tecnicamente che si pensava fosse opera del diavolo. Basta ascoltare il MOTO PERPETUO per rendersi conto della difficoltà nell'eseguire i suoi brani.

 Jozsef Lendvay (nato nel 1974) è un violinista ungherese . [1]
Nato a Budapest , in Ungheria , József Lendvay Jr ( figlio del famoso violinista gitano József "Csócsi" Lendvay ) ha frequentato il Béla Bartók Conservatory di Budapest, dove ha studiato con Miklos Szenthelyi e successivamente con l' Accademia di musica Franz Liszt di Budapest. [2] Le sue registrazioni includono opere di Sarasate e Brahms 'Hungarian Dances con Iván Fischer. Lendvay ha vinto il primo premio al Concorso internazionale di violino di Colonia, il Ferenc Liszt Heritage Award presentato dal Ministero della cultura nazionale ungherese e il concorso internazionale di violino Tibor Varga, tra gli altri. Nel 2002 gli è stata conferita la Croce d'oro per i suoi contributi musicali dal presidente della Repubblica ungherese.

Quando men vo - Bohème (Giacomo Puccini)


Quando men vo



Quando men vo è una romanza in tempo di valzer lento della Bohème di Giacomo Puccini, cantata nel secondo quadro da Musetta (soprano).
Musetta la canta con civetteria, seduta ad uno dei tavoli del Caffè Momus, rivolgendosi intenzionalmente al pittore Marcello, allo scopo di riconquistarlo. Nella parte iniziale la ragazza descrive l'effetto del proprio fascino sugli uomini e negli ultimi versi parla direttamente all'ex fidanzato.

Genesi e caratteristiche musicali

Il brano nacque come Piccolo Valzer per pianoforte in Mi maggiore, composto all'inizio di settembre del 1894 e destinato alla cerimonia di consegna della bandiera di combattimento per la nave da guerra "Re Umberto", che ebbe luogo a Sestri Ponente quello stesso mese.[1]
Secondo Mosco Carner, «Puccini ne ebbe l'idea un giorno ch'era a caccia sul suo amato Lago di Massaciuccoli, nella barca dolcemente cullata dalle onde.»[2]
Nel frattempo egli stava lavorando alla Bohème e, intenzionato ad adattare il motivo al valzer di Musetta, inviò come traccia al librettista Giuseppe Giacosa il verso "Coccoricò, coccoricò bistecca", dal cui ritmo nacque l'incipit "Quando men vo, quando men vo soletta"[2].
Se il metodo di inviare versi maccheronici ai librettisti come traccia metrica rientra nelle consuetudini pucciniane, può sorprendere l'abbinamento tra la musica, languida e seducente, e la cerimonia militare alla quale fu destinata la sua versione pianistica; a meno di non leggere la scelta del compositore come una presa di distanza, garbatamente ironica, rispetto ad una dimensione culturale che non gli apparteneva.
Nell'opera il brano conservò la tonalità di Mi maggiore e si arricchì di nuove sfumature agogiche, con ben 25 variazioni di movimento in 47 battute. Tale duttilità accresce il tono sensuale di una melodia il cui incipit è già caratterizzato in questa direzione dal movimento cromatico discendente e dall'insolito abbinamento tra una prima semifrase («quando men vo») a valori lunghissimi e una seconda a valori brevi («quando men vo soletta per la via»).
La struttura è quella ternaria A-B-A' tipica del valzer, con la sezione centrale («Così l'effluvio del desio») nella regione della sottodominante La maggiore. La ripresa («E tu che sai») differisce nelle battute finali, che Puccini modificò nel corso delle revisioni dell'opera e che portano la voce del soprano fino al Si acuto.
L'orchestrazione cameristica prevede nella sezione A (inclusa la ripresa) l'uso della sordina agli archi e, solo nelle battute iniziali, dei suoni armonici dell'arpa, già impiegati come introduzione della romanza. Il caratteristico controcanto di semicrome, che si affaccia anche nella sezione centrale, è affidato ai legni.
Il primo soprano a cantarla è stata Camilla Pasini nel 1896. Altri grandi soprani a cantarla sono stati Elisabeth Schumann, Elisabeth Söderström, Renata Scotto, Ainhoa Arteta ed Irina Lungu.

Aspetti drammaturgici

La presenza dei pertichini di Marcello, Alcindoro e Mimì, a partire dalla sezione centrale, svolge la funzione essenziale di creare un collegamento tra la dimensione lirica del brano e il realismo dell'azione. La situazione si muove per il resto sul filo dell'ambiguità drammaturgica, in quanto il carattere del brano - a partire dal tempo di valzer - sembrerebbe suggerire che si tratti di musica di scena, ossia che Musetta si stia esibendo in pubblico come cantante, ciò che risulterebbe per altro poco verosimile nel contesto dell'azione.
La seduzione di Musetta ha successo, anche se non immediatamente. A vincere le ultime resistenze di Marcello è, di lì a poco, il suo gesto di scoprire la caviglia con un pretesto e il ricongiungimento degli amanti avviene al termine della vigorosa ripresa orchestrale della sezione A del valzer, dalle parole di Marcello «Gioventù mia», coronata da un abbraccio sull'ultima esposizione del tema affidato a trombe e tromboni a tutta forza.
Puccini riprende un'ultima volta l'incipit della romanza poco dopo l'inizio del quadro III, allorché Musetta, da dietro la scena, intrattiene gli avventori della taverna, prima come semplice vocalizzo, poi alle parole «Se nel bicchiere sta il piacer, in giovin bocca sta l'amor!»

I versi

I versi del libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, basati su una libera successione di endecasillabi e settenari, presentano alcune differenze rispetto a quelli dello spartito di Puccini:

Libretto[3]
(civettuola, volgendosi con intenzione a Marcello, il quale comincia ad agitarsi)
Quando men vo soletta per la via
la gente sosta e mira,
e la bellezza mia - ricerca in me
tutta da capo a piè.
Ed assaporo allor la bramosia
sottil che dai vogliosi occhi traspira
e dai vezzi palesi intender sa
alle occulte beltà.
Così l'effluvio del desìo tutta m'aggira
e delirar mi fa.
E tu che sai, che memori e ti struggi
com'io d'amor, da me tanto rifuggi?
So ben: le angosce tue non le vuoi dir
ma ti senti morir!
Spartito[4]
(sempre seduta, dirigendosi intenzionalmente a Marcello, il quale comincia ad agitarsi)
Quando men vo, quando men vo soletta per la via
la gente sosta e mira,
e la bellezza mia tutta ricerca in me,
ricerca in me da capo a piè.
Ed assaporo allor la bramosia
sottil che dagli occhi traspira
e dai palesi vezzi intender sa
alle occulte beltà.
Così l'effluvio del desìo tutta m'aggira
felice mi fa!
E tu che sai, che memori e ti struggi,
da me tanto rifuggi?
So ben: le angosce tue non le vuoi dir,
non le vuoi dir, so ben, ma ti senti morir!
Si noti in particolare come il compositore sfrondò il testo da passaggi enfatici («vogliosi») o ridondanti («com'io d'amor») e soprattutto convertì il verso «e delirar mi fa» nel più semplice e sincero «felice mi fa».

31/03/18

Pasqua, le dieci opere d'arte più belle dedicate alla Resurrezione


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Pasqua, le dieci opere d'arte più belle dedicate alla Resurrezione

Con la figura di Cristo e con il sacro mistero rappresentato dalla sua esistenza si sono confrontati tutti i più grandi interpreti dell’arte occidentale. In occasione della Pasqua……
Da ”Resurrezione e Noli me tangere” di Giotto a ”La Risurrezione” di Carl Heinrich Bloch, ecco la top ten delle opere più belle che raccontano il tema della Resurrezione
MILANO – Con la figura di Cristo e con il sacro mistero rappresentato dalla sua esistenza si sono confrontati tutti i più grandi interpreti dell’arte occidentale. In occasione della Pasqua, dunque, non potevamo mancare di ripercorrere le opere che hanno raccontato il momento più alto di questo mistero: la Resurrezione. Da Giotto a  Carl Heinrich Bloch, ecco qui di seguito la top ten delle opere più belle e note dedicate a questo tema.


“Resurrezione e Noli me tangere” di Giotto – L’affresco fa parte della Cappella degli Scrovegni a Padova e fu realizzato tra 1303 e 1305. La scena è divisa in due parti. A sinistra vediamo il sepolcro scoperchiato e vuoto: sopra siedono due angeli, mentre a terra i soldati dormono. A destra, Maria Maddalena si inginocchia di fronte a Cristo risorto, che pronuncia la frase latina riportata dai vangeli: “Noli me tangere” (!Non mi toccare”). Mentre gli alberi a sinistra sono secchi e morti, a destra tornano rigogliosi, a simboleggiare il ritorno alla vita.



“Resurrezione di Cristo” di Piero Della Francesca – L’affresco fu eseguito da Piero Della Francesca, uno dei più importanti artisti del Quattrocento italiano, tra il 1450 e il 1463 nel palazzo del governo di Arezzo, oggi diventato Museo. La scena si apre in una cornice immaginaria – formata dal sepolcro, da due colonne e un architrave – che dà su un esterno. Qui, al centro, la figura di Cristo si solleva dal sepolcro, con aspetto solenne e sacrale e il vessillo crociato in mano. I soldati dormono alla base del sepolcro, creando così un contrasto con la divinità sempre vigile. Sullo sfondo, il paesaggio ha un aspetto invernale e spoglio a sinistra, rigoglioso a destra, a significare la continuità del ciclo della vita.



“Resurrezione di Cristo con Papa Alessandro VI inginocchiato” di Pinturicchio – Fa parte di una serie di opere di decorazione realizzate da Pinturicchio nei Palazzi Vaticani, e in particolare nelle stanze dell’Appartamento Borgia, tra 1492 e 1494. Cristo sorge dal sepolcro scoperchiato e si innalza in cielo con in mano il vessillo crociato, su uno sfondo dorato. La figura ha un atteggiamento sacrale, rigido, tipico dell’iconografia tradizionale. L’opera ha ispirato la “Resurrezione” di Raffaello.



“Resurrezione di Cristo” di Raffaello Sanzio – L’opera è un dipinto realizzato da Raffaello, grande maestro del nostro Rinascimento, nel 1501-1502, conservato oggi nel Museo d’Arte di San Paolo in Brasile. Al centro del quadro campeggia la figura del Cristo che si solleva da sepolcro scoperchiato e ascende al cielo. Le figure iniziano a mostrare una maggiore plasticità rispetto al modello del Pinturicchio, c’è una maggiore ricchezza di dettagli e i gesti sono più vivi, realistici, naturali. 



“Resurrezione di Cristo” di Tiziano – La “Resurrezione” è la scena centrale  del “Polittico Averoldi”, dipinto da Tiziano attorno al 1520-1522 e collocato  nella Collegiata dei Santi Nazaro e Celso a Brescia. La tipica iconografia della Resurrezione si combina qui con quella dell’Ascensione, con Cristo trionfante in cielo, mostrando come Tiziano abbia assimilato la lezione di Raffaello. La sua figura, sottolineata dall’illuminazione che lo inonda, mostra una perfezione anatomica vicina a quella delle statue greche.   



“Resurrezione di Cristo” di Domenico Ghirlandaio e Hendrik van den Broeck – Domenico Ghirlandaio fu uno degli artisti fiorentini che nel 1481 vennero chiamati a Roma da Papa Sisto IV per affrescare la Cappella Sistina. A lui vennero affidate due scene della vita di Cristo, la “Vocazione dei primi apostoli” e la “Resurrezione”. La sua opera purtroppo si danneggiò molto. Gli affreschi della Parete d’ingresso della Cappella Sistina vennero rifatti nella seconda metà del Cinquecento e Hendrik van den Broeck ridipinse la “Resurrezione” del Ghirlandaio.



“Resurrezione” di El Greco – Realizzata tra 1596 e 1600, la “Resurrezione” di El Greco è uno dei suoi grandi capolavori ed è oggi conservato al Prado di Madrid. Il dipinto presenta i tipici tratti visionari delle opere di El Greco, con forti contrasti tra luci e ombre, figure allungate e pallide, a creare un effetto di misticismo. I movimenti convulsi conferiscono drammaticità al quadro.



“Incredulità di San Tommaso” di Caravaggio – Il celebre dipinto, commissionato probabilmente dal banchiere Vincenzo Giustiniani, fu realizzato da Michelangelo Merisi tra 1600 e 1601. Raffigura l’apostolo San Tommaso che, incredulo, ispeziona il costato di Gesù Cristo risorto e infila un dito nella ferita. Altri due apostoli, da sopra la sua spalla, osservano la scena. Il quadro, come tutti quelli di Caravaggio, si contraddistingue per il suo estremo realismo, che non mancò di scandalizzare il suo stesso committente. Anche l’illuminazione è tipicamente caravaggesca, con un’unica fonte luminosa da sinistra che accentua l’“immersione” del dito. Il dipinto è oggi nella Bildergalerie di Potsdam.



“Resurrezione di Cristo” di Pieter Paul Rubens  – La Resurrezione è un trittico dipinto dal grande pittore fiammingo Ruben tra 1611 e 1612, nella Cattedrale di Nostra Signora di Anversa.  Tornato in Italia dopo un lungo periodo a Roma, Rubens dimostra di aver assimilato le novità portate nell’arte pittorica da Caravaggio, ma il suo stile è del tutto originale e non ha equivalenti in Italia.



“La Risurrezione” di Carl Heinrich Bloch – Dipinta da Carl Heinrich Bloch nella seconda metà dell’Ottocento,  la scena è campeggiata dal Cristo trionfante sulla morte che si innalza emergendo dal sepolcro. Ai suoi lati stanno due angeli in adorazione, dietro di lui i narcisi rappresentano la speranza e la rinascita. Sotto i suoi piedi, la pietra che un tempo conteneva il suo corpo si spezza, in primo piano giace l’elmo vuoto di un soldato. L’effetto è di grande potenza e sacralità.