29/03/12

CHOPIN (1810 - 1849) ROMANTICO : Notturno op. 9 No. 2


CHOPIN ROMANTICO
Notturno op. 9 No. 2 :












Fryderyk Franciszek Chopin, il cui nome è noto anche nella variante francesizzata Frédéric François[1] Chopin[2]. (Żelazowa Wola, 22 febbraio o 1º marzo 1810[3]Parigi, 17 ottobre 1849), è stato un compositore e pianista polacco. Fu uno dei grandi maestri della musica romantica ed è talvolta ricordato come il poeta del pianoforte[4].
Bambino prodigio, Chopin crebbe a Varsavia, dove ebbe modo di completare la sua formazione musicale. A seguito della repressione russa della Rivolta di Novembre (1830), si trasferì in Francia nel contesto della cosiddetta Grande Emigrazione. Per dieci anni, dal 1837 al 1847, fu legato sentimentalmente alla scrittrice francese George Sand. Era di salute cagionevole, e ciò lo portò alla morte nel 1849, all'età di 39 anni.
Gran parte delle composizioni di Chopin vennero scritte per pianoforte solista; le uniche significative eccezioni sono i due concerti per pianoforte. Le sue opere sono spesso impegnative dal punto di vista tecnico, ma mantengono sempre le giuste sfumature e una profondità espressiva. Egli inventò la forma musicale nota come ballata strumentale e addusse innovazioni ragguardevoli alla sonata per pianoforte, alla mazurca, al valzer, al notturno, alla polonaise, allo studio, all'improvviso, allo scherzo e al preludio.


Chopin nacque a pochi chilometri da Varsavia, in una famiglia dedita alla musica (il padre suonava il flauto e il violino, la madre cantava accompagnandosi al piano che anche le sorelle suonavano).
Il padre, Mikołaj Chopin (1771-1844), era un francese nato a Marainville-sur-Madon con il nome di Nicolas ma, in seguito al definitivo trasferimento in Polonia, lo cambiò nella variante polacca; fu prima governante e dopo essersi trasferito da Żelazowa Wola a Varsavia insegnò lingua e letteratura francese in alcune scuole della capitale e amministrò infine un istituto per i figli degli aristocratici polacchi più illustri.
La madre, Tekia Justyna Krzyżanowska (1782-1861), era una pianista polacca. Fryderyk ebbe tre sorelle: Ludwika (1807-1855), Izabela (1811-1881) ed Emilia (1812-1827, morta molto giovane). Il suo primo insegnante privato fu un ceco, Wojciech Żywny (1756-1842). Fu lui a scoprire il grande talento musicale del suo allievo, e gli insegnò tutto ciò che sapeva.
Intorno ai 9-10 anni, Fryderyk cominciò a soffrire di una tosse insistente che lo accompagnò fino alla morte. L'interpretazione più accettata oggi è che questa tosse fosse espressione di una tubercolosi polmonare. Fra i fautori di questa interpretazione ci fu Jean Cruveilhier, patologo francese che assistette Chopin negli ultimi mesi di vita



Intanto la famiglia si era trasferita a Varsavia, dove bambino, Chopin già suonava, lanciandosi anche in improvvisazioni, nei migliori salotti.
Nel 1817 debuttò come compositore con la Polacca in Sol minore e la sua prima vera esibizione pubblica si tenne nel 1818.
Nel 1827 entrò al Liceo di Varsavia e cominciò i suoi primi studi di armonia, contrappunto e composizione sotto la guida di Józef Elsner, il quale ebbe a scrivere su di lui: "Frédéric Chopin, allievo di terzo anno. Capacità incredibili, un genio della musica". Questo periodo fu caratterizzato dall'interesse del giovane Chopin per la musica popolare: compose tra l'altro le Mazurche da ballo e il Rondò in Do minore.



Negli anni 1827-1829 Chopin studiò alla Scuola superiore di musica, nel Dipartimento di Arti e scienze dell'Università di Varsavia. Era a quel tempo un attivo partecipante della vita culturale di Varsavia, amava frequentare i concerti di Niccolò Paganini ed assistere alle opere presentate da Karol Kurpiński nel Teatro Nazionale, tra le quali Don Giovanni di Mozart e Il barbiere di Siviglia di Rossini. Di quest'autore prima di emigrare in Francia conobbe 13 opere. Accompagnava volentieri al pianoforte i cantanti. In questo periodo scrisse le Variazioni in Si bemolle maggiore, basate su un motivo del Don Giovanni, ed i Rondeaux virtuosistici, basati sulle musiche popolari.
Gli anni 1829-1831 sono per Chopin gli anni del primo amore (per la cantante Konstancja Gładkowska, 1810-1889) e dei primi successi come compositore. Nascono in quel periodo i due Concerti per pianoforte, in Fa minore (op. 21) e Mi minore (op. 11).
Durante un soggiorno a Vienna Chopin soffrì per le notizie che gli giunsero dalla Polonia riguardo alla Rivolta di Novembre. Egli non ritornerà mai più in patria. Le composizioni di questo periodo sono drammatiche e liriche, caratteristiche che sostituiscono piano piano la spensieratezza popolaresca e il sentimentalismo dei lavori precedenti.
Quando il musicista si trovava a Stoccarda, venne a sapere che la rivoluzione polacca era stata soffocata nel sangue dallo Zar russo Alessandro I. Secondo Maurycy Karasowski, l'episodio storico ispirò a Chopin scrivere lo Studio op. 10 n. 12, quell'Allegro con fuoco a cui poi fu attribuito il titolo «La caduta di Varsavia».



A circa vent'anni Chopin si trasferì a Parigi, dove condusse una vita di virtuoso, componendo brani che riscossero successo specialmente nei salotti. Frequentò i teatri d'opera e conobbe vari musicisti (Friedrich Kalkbrenner, Franz Liszt, Ferdinand Hiller, Vincenzo Bellini, Hector Berlioz), era invitato a esibizioni private nei salotti mentre rari furono i suoi concerti pubblici.
Dava molte lezioni private, principale fonte dei suoi guadagni. Quando nel 1835 si fidanzò con la contessa Maria Wodzińska (1819-1879), la famiglia di lei, dopo un apparente, iniziale favore, si mostrò contraria al matrimonio. Forse in questo rifiuto ebbe una parte importante la salute cagionevole di Chopin: di aspetto emaciato, aveva scarsissima resistenza fisica, soffriva di frequenti attacchi di bronchite purulenta, laringite ed episodi di emottisi;[5] secondo la maggior parte dei biografi, tuttavia, pesarono maggiormente ragioni di ordine prettamente economico. Fu questo anche l'anno dell'ultimo incontro con i suoi genitori, che si recarono a Karlsbad, dove Chopin li raggiunse in agosto. Durante il viaggio di rientro a Parigi, ebbe modo a Dresda di conoscere Robert Schumann e Clara Wieck.
Nel 1838 conobbe George Sand, più grande di lui di sei anni e in precedenza amante di Alfred De Musset e del geloso Félicien Mallefille (1813-1868), e si gettò nelle braccia dell'"amore compiuto" (parole di George Sand). I due amanti si recarono a Maiorca, trascorrendo l'inverno nella Cartuja di Valdemossa, nel Nord Ovest dell'isola, mentre in Spagna continuava la guerra e la malattia di Chopin si acuiva sempre più. A trent'anni pesava meno di 45 chilogrammi per una statura di circa un metro e 70 e George Sand, dopo neanche due anni dal loro incontro, cercò di interrompere la loro relazione sessuale perché temeva ripercussioni sulla salute di lui.[5]
Nel 1839 Chopin e George Sand tornarono in Francia. Trascorsi insieme quasi sette anni, l'incompatibilità dei due amanti emerse inequivocabilmente quando Fryderyk prese posizione sul matrimonio fallito di Solange, la figlia di George. La scrittrice lo accusò di esserle nemico e lo lasciò. Il periodo precedente alla rottura con George Sand lasciò un'impronta importante sulla creatività e sulla vita sociale di Chopin.



Dopo la rottura con George Sand, coll'aggravarsi della malattia, Chopin cadde in una depressione che probabilmente accelerò la sua morte. Dopo aver lasciato Nohant-Vic compose sempre meno sino al totale silenzio.
Durante l'ultimo periodo della sua vita, Chopin fu assistito da una sua allieva scozzese, Jane Stirling, che insieme alla sorella Mrs. Erskine convinse Chopin a trasferirsi in Inghilterra. Ma il rigido clima inglese e la vita mondana in cui vollero trascinarlo le due scozzesi peggiorò notevolmente la salute del compositore.
Rientrato a Parigi, la sua salute si aggravò improvvisamente, e il 17 ottobre del 1849, alle 2 del mattino, venne dichiarato morto; al suo fianco, negli ultimi momenti di vita, gli intimi, tra cui Eugène Delacroix, Delfina Potocka - alla quale aveva dedicato uno dei suoi valzer più famosi - e la sua più amata sorella, Ludwika. Venne sepolto a Parigi nel cimitero di Père Lachaise, ma il suo cuore è conservato a Varsavia, nella Chiesa di Santa Croce.

Cronologia 

  • 1810 nasce a Żelazowa Wola
  • 1817 prime prove di composizione
  • 1818 prima esibizione pubblica
  • 1823 inizio degli studi di composizione con Elsner
  • 1826 studi nella Scuola Superiore di Musica
  • 1829 primo viaggio a Vienna
  • 1830 secondo viaggio a Vienna
  • 1831 arrivo a Parigi
  • 1835 fidanzamento con Maria Wodzińska
  • 1836 incontro con George Sand
  • 1837 rottura con Wodzińska
  • 1838 rapporto con George Sand, partenza per Maiorca e lavoro sui 24 Preludi.
  • 1839 ritorno in Francia, compone la Sonata in Si bemolle minore
  • 1844 muore Nicolas Chopin, il padre.
  • 1845 i litigi con la Sand aumentano e la malattia si aggrava
  • 1847 rottura con la Sand
  • 1848 viaggio con Jane Stirling in Inghilterra e Scozia
  • 1849 morte il 17 ottobre

La tomba di Chopin al cimitero Père Lachaise di Parigi.




Composizioni 

 
Chopin ha composto quasi esclusivamente per pianoforte solista, ma il catalogo delle sue opere include anche 2 concerti per pianoforte e orchestra, 20 romanze per voce e pianoforte e un numero esiguo (cinque in tutto) di composizioni da camera per pianoforte e violoncello; pianoforte, violoncello e violino; pianoforte e flauto. Le composizioni per pianoforte solo includono:
Questo catalogo (incompleto) rivela chiaramente come Chopin si sia cimentato in composizioni quasi sempre pianistiche ma di vario tipo, risolvendo brillantemente la problematica connessa con tutte le forme affrontate. Tra queste figurano composizioni classiche come i Concerti e le Sonate, composizioni dal respiro ampio e dalla struttura più libera come gli Scherzi e le Ballate, e composizioni brevi e intime come i Preludi, i Notturni, gli Studi e le Mazurche.
Un ruolo particolare nella produzione chopiniana è rivestito dai pezzi legati all'amata Polonia.
Tra questi si trovano le Mazurche, le Polacche, il Krakoviak e la Fantasia su arie polacche (questi ultimi due per pianoforte ed orchestra).
Se le Mazurche sembrano essere piccole e intime rievocazioni del folclore musicale polacco, altre composizioni più strutturate come le polacche op. 44, op. 53 (Eroica), op. 61 o la Fantasia su arie polacche sono l'ambiente ideale dove il compositore può con più personalità rielaborare idee o ricordi della lontana patria, che possono essere ritmi, incisi melodici o altro. In questo gruppo spicca la Fantasia, dove il pianoforte rielabora con estrema personalità i temi originali polacchi suonati dall'orchestra.
Gli Studi per pianoforte op. 10 e op. 25 rappresentano un caposaldo della musica in quanto Chopin trasforma lo studio, da genere essenzialmente didattico a vera e propria composizione artistica. Pare che l'autore li abbia scritti per sé stesso, per compensare una formazione pianistica per certi versi non compiuta; ogni studio è espressamente dedicato ad una particolare tecnica pianistica.
Non solo negli Studi, ma anche nelle Mazurche, nei Preludi e nei Notturni Chopin affronta con efficacia le strutture piccole (non più di 5-6 pagine). Queste composizioni sono generalmente costruite su un'idea principale talvolta alternata a una sezione centrale di carattere contrastante (come nello Studio op. 25 n. 5, in quasi tutti i notturni e in molte mazurche).
I Preludi sono composizioni brevi e con esposizioni essenziali, talvolta racchiusi in poche battute (si considerino per esempio quello in La maggiore o quello in Do maggiore). Sono considerati alla stregua di aforismi musicali, per l'efficacia con cui dipingono sensazioni o creano atmosfere. Sono costruiti sul circolo delle quinte, alternando il modo maggiore al modo minore.
I Notturni sono considerati tra le composizioni più emblematiche del romanticismo chopiniano, ispirate liberamente a quelli ben più ingenui dell'irlandese John Field, che ne inventò il genere, e caratterizzati da piccoli momenti lirici dalla melodia generalmente cantabile ed espressiva. Se ne trovano di vari tipi, dai più sognanti (op. 9 n. 2 in Mib maggiore, famosissimo, op. 55 n. 2 in Mi bemolle maggiore), ai più cupi (op. 48 n. 1 in Do minore), ai più enigmatici (Notturno op. 9 n. 3 in Si maggiore). Secondo il maestro Maurizio Pollini, essi sono come un riflesso "compositivo ed esistenziale", una sorta di "diario intimo, che attraversa la sua vita"[6].
Composizioni in genere più estese sono gli Improvvisi e i Valzer.
Gli Improvvisi sono a struttura tripartita A-B-A'. Generalmente la prima parte è veloce, con temi a terzine in forma di moto perpetuo, mentre la sezione centrale è più lenta e melodica. Famosissimo il quarto Improvviso-Fantasia in Do diesis minore, che Chopin aveva rigettato in quanto lo considerava troppo simile alla sonata no. 14 di beethoven.
Anche i Valzer presentano forme svariate, e si fanno ammirare soprattutto per la raffinatezza dei temi e la ricercatezza della scrittura. Sappiamo che Chopin li pensò come brani puramente musicali, non perché fossero ballati dai membri di quella buona società parigina della quale faceva parte egli stesso, ma che non amava. Tra i momenti più efficaci dei valzer maggiori vi sono sicuramente le code, in cui Chopin condensa le idee tematiche della composizione.
Passando a considerare le composizioni ancora più elaborate, incontriamo gli Scherzi e le Ballate.
Nonostante le ampie dimensioni gli Scherzi chopiniani conservano una struttura che ci permette di ricondurli alla struttura tripartita dello Scherzo beethoveniano, anche se molteplici sono le differenze musicali. Lo Scherzo più famoso è sicuramente il n. 2 in Si bemolle minore e semplicemente considerando la varietà di registri stilistici toccati in questa composizione ci si può rendere conto della sua complessità. Si va dall'incisivo tema iniziale di terzine alla fluente e ampia melodia della pagina successiva, mentre nella sezione centrale si passa da momenti di recitativo a fioriti arabeschi e a passaggi modulanti d'intonazione drammatica.
Le 4 Ballate per pianoforte sono una novità assoluta nella storia della musica. Esse non hanno infatti niente a che fare con le ballate medievali, e secondo alcuni studiosi furono semmai ispirate a quelle letterarie di Mickiewicz. Qui Chopin crea una forma ampia, adattata alle sue necessità espressive, costruita spesso su scontri tra il versante sognante e quello drammatico della sua personalità (si consideri per esempio la celebre Ballata op. 23 in Sol minore). Più di qualche revisore ha tentato di ricostruire gli aspetti di alternanza tematica, scovandovi gli stili della sonata, dello scherzo, del rondeau, ma sempre in indecifrabile mescolanza, supportati da una costante invenzione tematica senza pari nel repertorio chopiniano. Si pensi alla mirabile Quarta.
La critica considera le Sonate e i Concerti come pezzi nei quali la libera fantasia musicale di Chopin si adattò con più fatica alla rigida struttura formale imposta dalla convenzione. Ciononostante, la Sonata n. 2 in si bemolle minore (nota come "Marcia Funebre") contiene momenti musicali di grande impatto (come la Marcia funebre del titolo) o di acceso sperimentalismo (come il quarto tempo, privo di melodia, in cui entrambe le mani suonano un vorticoso tema all'unisono).
Tutte queste composizioni mostrano le due anime di Chopin: quella limpida, sognante, malinconica, cantabile dello studio op. 10 n. 3 in Mi maggiore o del notturno op. 9 n. 2 in Mi bemolle maggiore, e quella più nera e a tratti disperata di alcune tra le composizioni più enigmatiche, come il finale della quarta ballata, lo Studio op. 25 n. 12 in Do minore o il quarto tempo della sonata marcia funebre.
Chopin lascia un testamento musicale di grandi proporzioni, che ci mostra un compositore attento al più infimo dettaglio, dotato di una creatività esplosiva e insieme di un inesorabile senso degli equilibri formali, oltre che di una espressività musicale che raramente ha trovato pari nella storia della musica.

 

L'amata Polonia 

Il monumento a Fryderyk Chopin in Żelazowa Wola (progettato da Józef Gosławski)

 

Un ruolo particolare nella produzione chopiniana è rivestito dai pezzi legati all'amata Polonia.
Tra questi si trovano le Mazurche, le Polacche, il Krakowiak e la Fantasia su arie polacche (questi ultimi due per pianoforte ed orchestra).
Se le Mazurche sembrano essere piccole e intime rievocazioni del folclore musicale polacco, altre composizioni più strutturate come le polacche op. 44, op. 53, op. 61 o la Fantasia su arie polacche sono l'ambiente ideale dove il compositore può con più personalità rielaborare idee o ricordi della lontana patria, che possono essere ritmi, incisi melodici o altro. In questo gruppo spicca la Fantasia, dove il pianoforte rielabora con estrema personalità i temi originali polacchi suonati dall'orchestra.
L'amore del musicista per la sua patria polacca è stato ampiamente ricambiato: in Polonia Chopin è considerato un vero e proprio eroe nazionale. A lui sono state dedicate banconote, l'aeroporto di Varsavia, monumenti (famoso quello eretto nel 1926, distrutto dai nazisti dopo l'occupazione nella seconda guerra mondiale e successivamente ricostruito), vie e svariati premi.
Nella capitale Varsavia esiste inoltre un teatro dedicato solo ed esclusivamente alle sue composizioni, in cui tutto l'anno si alternano svariati esecutori.
Dal 1927 viene organizzato in Polonia il Concorso pianistico internazionale Frédéric Chopin, il primo concorso monografico del mondo, fondato da Jerzy Żurawlew e che lanciò, tra gli altri, anche Maurizio Pollini[6].
Tra i più celebri studiosi del musicista polacco figurano Gastone Belotti e Jaroslaw Iwaszkiewicz.

Filmografia 

La vita breve e tormentata del musicista polacco, vero archetipo dell'artista romantico, si è ben prestata a varie trasposizioni filmiche.

Monumenti di Chopin 

Note 

  1. ^ Il nome in polacco è Fryderyk Franciszek. Chopin adottò la variante francese Frédéric-François, che ancora oggi è largamente utilizzata in alternativa al nome polacco originale, quando a venti anni lasciò la Polonia per non tornarvi mai più.
  2. ^ Il cognome era in passato trascritto anche come Szopen in Polonia, secondo la pronuncia e l'ortografia polacca. Ora anche in Polonia, come nel resto del mondo, l'ortografia usata nel cognome è quella francese (Chopin) (cfr. Corso di polacco per italiani, Wiedza edizioni).
  3. ^ Il certificato di battesimo riporta la data di nascita 22 febbraio, ma la famiglia festeggiava il compleanno il 1º marzo.
  4. ^ Enrico Parola. «La voce di Corrado Augias per i "Notturni"». Corriere della Sera, 11 7 2010, p. 18. URL consultato in data 11-9-2011.
  5. ^ a b c Matteo Valerio: Malattie in musica: la storia clinica di Chopin in M.D, anno XVII n. 31-32, pag. 47 (10 novembre 2010)
  6. ^ a b Leonetta Bentivoglio. «Maurizio Pollini: Perché prediligo Chopin, un mago del pianoforte». La Repubblica, 11 10 2005, p. 46. URL consultato in data 13-1-2009.




I GRANDI SOLISTI :


Yulianna Avdeeva

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Yulianna Avdeeva viene premiata al Concorso di Varsavia



Yulianna Avdeeva (Mosca, 3 luglio 1985) è una pianista russa, ultima vincitrice del prestigioso Concorso Chopin.
Yulianna Avdeeva ha iniziato a suonare all'età di 5 anni. Ha studiato alla Gnessin Special School di Mosca e si è diplomata alla Hochschule der Künste di Zurigo. Dopo il diploma, è diventata assistente del suo insegnante, Konstantin Scherbakov. Dal 2008 studia inoltre presso l'Accademia di Como. Dopo ottimi risultati conseguiti in varie competizioni, è stata consacrata dalla vittoria alla sedicesima edizione del prestigiosissimo Concorso Chopin di Varsavia. È stata la terza donna a vincere questo concorso, dopo la vittoria di Martha Argerich nel 1965 e di Halina Czerny-Stefańska che vinse con giudizio Ex aequo et bono insieme a Bella Davidovic nel 1949.




01/03/12

La pietà - (M. Buonarroti)

Il meraviglioso capolavoro conosciuto in tutto il mondo col nome della Pietà di Michelangelo (vedi immagine sotto), è una scultura realizzata col marmo bianco di Carrara da colui che è considerato giustamente dagli esperti, come il più grande artista scultore di tutti i tempi, e cioè Michelangelo Buonarroti.
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Quest' opera è conservata presso la Basilica di San Pietro, nella città del Vaticano a Roma, il piccolo Stato ove risiede il nostro Santo Padre. La Pietà è stata realizzata all'incirca negli anni 1497-1499, quando Michelangelo aveva circa 22 anni, ed era ancora agli inizi della sua straordinaria carriera artistica. La scultura è di dimensioni medie, alta circa 174 centimetri, larga 195 ed ha una profondità di circa 69 centimetri. Viene considerata uno dei maggiori capolavori scultorei che l'arte occidentale ci abbia dato. Possiamo anche dire che sia uno dei primi capolavori assoluti di Michelangelo, se si pensa che quando la realizzò, aveva soltanto appena 22 anni circa, quindi molto giovane, ma già pieno di talento e genio. La Pietà, è stata anche firmata da Michelangelo, infatti, sulla fascia a tracolla che regge il manto della Vergine affranta, possiamo trovare il nome dell'artista. Sembra che la Pietà, sia la sola opera firmata dal grande artista, e c'è anche un piccolo episodio che ci fa capire il motivo della sua firma, in quanto non usava mai mettere il suo nome nelle opere che realizzava. Sembra che un giorno lo stesso Michelangelo, senti parlare due signori tra di loro, mentre rimanevano affascinati e meravigliati davanti questa stupenda scultura. Uno diceva all'altro che l'artefice di tale bellezza era uno scultore lombardo, tale Cristoforo Solari. Per questo Michelangelo, volle evitare qualunque confusione di paternità, e firmò la Pietà. La Pietà, raffigura il momento forse più drammatico dell'episodio della Crocifissione di Gesù. Nell'opera, riconosciamo subito infatti, la Vergine Maria (la Madonna), che tiene tra le braccia il proprio figlio Gesù Cristo, morto per tutta l'umanità sulla croce. Il Cristo, è stato appena deposto dalla croce, e i suoi aguzzini romani, lo consegnano nudo e pieno di piaghe, con un semplice straccio nelle mani della Madre, affranta dal dolore per la grave perdita.
Ammirando la Pietà di Michelangelo, una delle prime cose che possiamo notare, è la grande naturalezza dei corpi. A differenza di altre Pietà dell'arte antica, dove la tradizione voleva che i due corpi, fossero “composti” con uno schema ben preciso, posizionati cioè, la Madonna ritta in verticale e rigida, mentre il corpo del Cristo in orizzontale, dando una sensazione irreale, di rigidezza. Nell'opera di Michelangelo grande innovatore in scultura, invece troviamo la realtà, la naturalezza e la fisicità nei corpi. Quello di Gesù per esempio è perfettamente e naturalmente appoggiato, ci restituisce le giuste pieghe fisiche delle pelle e dei muscoli, che notiamo come se fossero molli, appunto “veri”. Viene quasi di andare a toccare con le nostre mani le vene perfette delle mani o le caviglie del Cristo, o magari le carni attorno al costato flagellate dalle fruste degli aguzzini, come se lo avessimo davanti a noi. L'artista, con questa sua opera, è riuscito a cogliere l'istante più intimo e più toccante che possa esserci tra una Madre ed il suo Figliolo morto. Mi chiedo, cosa possa esserci di più straziante e drammatico al mondo, di una immagine dove una madre, sia sopravvissuta al figlio, e quest'ultimo giace morto tra le braccia di Lei. Nessuna Madre vorrebbe vivere più di un figlio...
Nel viso della Madonna, dopo tanto dolore, urla e lacrime sparse, ed ore di strazianti immagini del povero Figlio ucciso dagli aguzzini, sembra che si intraveda, quasi rassegnata, la consapevolezza del grande progetto Divino, di resurrezione e salvezza dell' umanità, per opera del figlio Gesù. Sembra che con il movimento della sua mano sinistra, la Madonna voglia invitarci a riflettere su quello che abbiamo davanti, e sull'importanza del gesto divino. A mio parere, La Pietà di Michelangelo, è davvero una delle poche sculture che riescono a trasmetterci un importante messaggio. È un opera che riesce davvero a sensibilizzare le persone, a trasmettere un grande amore... straordinario capolavoro della nostra arte italiana. Grazie anche di questo Michelangelo Buonarroti.

Primavera (Botticelli)

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Primavera
Primavera
Autore Sandro Botticelli
Data 1482 circa
Tecnica Tempera su tavola
Dimensioni 203 × 314 cm
Ubicazione Galleria degli Uffizi, Firenze


La Primavera è un dipinto tempera su tavola (203x314 cm) di Sandro Botticelli, databile al 1482 circa e conservato nella Galleria degli Uffizi a Firenze.
Si tratta del capolavoro dell'artista, nonché di una delle opere più famose del Rinascimento italiano. Vanto della Galleria, faceva forse anticamente pendant con l'altrettanto celebre Nascita di Venere, con cui condivide la provenienza storica, il formato e alcuni riferimenti filosofici. Il suo straordinario fascino che tuttora esercita sul pubblico è legato anche all'aura di mistero che circonda l'opera, il cui significato più profondo non è ancora stato completamente svelato[1].

Storia 

Le fonti hanno ormai largamente confermato che il dipinto venne eseguito per Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici (1463-1503), cugino di secondo grado del Magnifico di circa quindici anni più giovane, non sempre in ottimi rapporti con il cugino maggiore, incaricato de facto di governare Firenze[1]. Gli inventari di famiglia del 1498, 1503 e 1516 hanno anche chiarito la sua collocazione originaria, nel Palazzo di via Larga, dove rimase prima di essere trasferita nella Villa di Castello, dove il Vasari riferisce di averla vista nel 1550, accanto alla Nascita di Venere[2]. Il titolo con cui è universalmente conosciuto il dipinto deriva proprio dall'annotazione del Vasari ("Venere che le Grazie fioriscono, dinotando Primavera"), dalla quale derivano anche le linee cardine su cui si sono mossi tutti i tentativi di interpretazione[1].
Nel 1815 si trovava già nel Guardaroba mediceo e nel 1853 venne trasferita alla Galleria dell'Accademia per lo studio dei giovani artisti che frequentavano la scuola; con il riordino delle collezioni fiorentine venne trasferita agli Uffizi nel 1919[3].
Se nella critica non vi è alcun dubbio circa l'autografia di Botticelli, piuttosto discordi sono le ipotesi sulla datazione. Gli estremi sono quelli della collaborazione presso i Medici, dal 1477 al 1490, con la sospensione del viaggio a Roma, per affrescare tre episodi biblici nella Cappella Sistina, degli anni 1480-1482. Lightbrown ipotizzò una datazione immediatamente successiva al rientro dalla Città eterna, nel 1482, coincidendo con le nozze del committente Lorenzo il Popolano con Semiramide Appiani[3]: l'allegoria di Venere, rappresentata al centro del dipinto, sarebbe anche legata a un oroscopo di Lorenzo, come risulta da una lettera di Marsilio Ficino a lui indirizzata, in cui il filosofo lo esortava a indirizzare il proprio agire secondo la configurazione astrale che ne dominava il tema natale, cioè proprio Venere e Mercurio[2].
Questa ipotesi è oggi la più accettata dalla critica, sostituendo ormai quella al 1478, prima della partenza per Roma.

Descrizione 

In un ombroso boschetto, che forma una sorta di esedra di aranci colmi di frutti e arbusti sullo sfondo di un cielo azzurrino, stanno disposti nove personaggi, in una composizione bilanciata ritmicamente e fondamentalmente simmetrica attorno al perno centrale della donna col drappo rosso e verde sulla veste setosa[1]. Il suolo è composto da un verde prato, disseminato da un'infinita varietà di specie vegetali, tra cui ricchissimo campionario di fiori[1]: nontiscordardimé, iris, fiordaliso, ranuncolo, papavero, margherita, viola, gelsomino, ecc.
I personaggi e l'iconografia generale vennero identificati nel 1888 da Adolph Gaspary, basandosi sulle indicazioni di Vasari, e, fondamentalmente, non sono più stati messi in discussione[1]. Cinque anni dopo Aby Warburg articolò infatti la descrizione che venne sostanzialmente accettata da tutta la critica, sebbene sfugga tuttora il senso complessivo della scena[1].
L'opera è ambientata in un boschetto di aranci (il giardino delle Esperidi) e va letta da destra verso sinistra, forse perché la collocazione dell'opera imponeva una visione preferenziale da destra[2]. Zefiro (o Boreo), vento di primavera che piega gli alberi, rapisce per amore la ninfa Cloris, fecondandola; da questo atto ella rinasce trasformata in Flora, la personificazione della stessa primavera rappresentata come una donna dallo splendido abito fiorito che sparge a terra le infiorescenze che tiene in grembo[1]. A questa trasformazione allude anche il filo di fiori che già inizia a uscire dalla bocca di Cloris durante il suo rapimento. Al centro campeggia Venere, inquadrata da una cornice simmetrica di arbusti, che sorveglia e dirige gli eventi, quale simbolo neoplatonico dell'amore più elevato[1]. Sopra di lei vola il figlio Cupido, mentre a sinistra si trovano le sue tre tradizionali compagne vestite di veli leggerissimi, le Grazie, occupate in un'armoniosa danza in cui muovono ritmicamente le braccia e intrecciano le dita[1].
Chiude il gruppo a sinistra un disinteressato Mercurio, coi tipici calzari alati, che col caduceo scaccia le nubi per preservare un'eterna primavera[1].

Interpretazioni 

Come succede per altri grandi capolavori del Rinascimento, la Primavera nasconde vari livelli di lettura: uno strettamente mitologico, legato ai soggetti rappresentati, la cui spiegazione è ormai appurata; uno filosofico, legato alla filosofia dell'accademia neoplatonica e ad altre dottrine; uno storico-dinastico, legato alle vicende contemporanee ed alla gratificazione del committente e della sua famiglia.
Queste ultime due letture, con le rispettive ramificazioni possibile, sono più controverse, ed hanno registrato i molteplici interventi di studiosi e storici dell'arte, senza tuttavia giungere a un risultato definitivo o almeno ampiamente condiviso.

Lettura legata al committente 

Una prima serie di interpretazioni lega i personaggi mitologici del dipinto a individui fiorentini dell'epoca, come in una mascherata carnevalesca, e alla loro celebrazione tramite rappresentazioni simboliche delle loro virtù[2].
Partendo dall'inventario mediceo del 1498, Mirella Levi D'Ancona ha ipotizzato che il dipinto possa essere l'allegoria del matrimonio tra Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici e Semiramide Appiani; Botticelli lo avrebbe oltretutto eseguito in due momenti successivi, perché l'opera era stata inizialmente commissionata da Giuliano de' Medici in occasione della nascita del figlio Giulio (futuro papa Clemente VII), avuto con Fioretta Gorini che egli avrebbe sposato in gran segreto nel 1478.
Ma come è noto Giuliano morì nella congiura dei Pazzi ordita contro il fratello in quello stesso anno, un mese prima della nascita del figlio, per cui il quadro incompiuto venne "riciclato" dal cugino qualche tempo dopo per celebrare le sue nozze, inserendovi il suo ritratto e quello della moglie, che si diceva essere donna dall'estrema bellezza. Il gruppo di destra rappresenterebbe l'istintualità e la passionalità notoriamente condannate dal neoplatonismo perché portatrici di atteggiamenti irrazionali.
Secondo questa interpretazione i personaggi raffigurerebbero:
  • Venere = Fioretta Gorini (prima versione), poi l'Amore Universale
  • Mercurio = Lorenzo di Pierfrancesco
  • Tre Grazie = Amore humanus (la Grazia al centro ha le sembianze di Seramide Appiani), cioè spirituale, puro, elevato, secondo i principi dell'umanesimo platonico
  • Zefiro-Cloris-Flora = Amore Ferinus (bestiale)
I fiori presenti nella scena alluderebbero a vari significati matrimoniali: fiordalisi, margherite e nontiscordardimé alludono alla donna amata, i fiori d'arancio sugli alberi sono ancora oggi un simbolo di felicità matrimoniale, così come la borrana che si vede sul prato[4].
In base ad altri ritratti dipinti da Botticelli o da altri artisti della sua cerchia, nei vari protagonisti della rappresentazione sono stai individuati vari personaggi di casa Medici. Trattandosi però spesso di opere altamente idealizzate, si tratta per lo più di semplici ipotesi, più o meno suggestive.
In particolare nelle tre Grazie sono state riconosciute Caterina Sforza (a destra), confrontando con la Santa Caterina d'Alessandria (sempre di profilo) nel Lindenau-Museum di Altenburg, e Simonetta Vespucci (al centro), la fonte di ispirazione per la Nascita di Venere, che guarda sognante verso Mercurio-Giuliano de' Medici[2].

Lettura storica 

Secondo Horst Bredekamp, che data la tavola a non prima del 1485, oltre alle evidenti implicazioni filosofiche, si dovrebbe considerare il dipinto come allegoria dell'età medicea, intesa come età dell'oro, ma sotto la guida di Lorenzo di Pierfrancesco e non del Magnifico, confermandone così la committenza. La presenza di Flora sarebbe pertanto un'allusione a Florentia e dunque alle antiche origini della città.
Si tratta di un'interpretazione che tiene notevolmente conto di numerose implicazioni di carattere storico e politico dell'epoca e che riprende la generale tendenza degli ultimi decenni a "smitizzare" la figura del Magnifico in favore del ramo cadetto della famiglia, cui verrebbe attribuita un'importanza forse per molto tempo rimasta sconosciuta ma non ancora pienamente verificata.
Le altre figure sarebbero città legate in vario modo a Firenze: Mercurio-Milano, Cupido (Amor)-Roma, le Tre Grazie come Pisa, Napoli e Genova, la ninfa Maya come Mantova, Venere come Venezia e Borea come Bolzano.

Lettura filosofica 

Sicuramente nella Primavera il mito venne scelto per rispecchiare verità morali, adottando un tema antico, quindi universale, a un linguaggio del tutto moderno[5].
Il primo critico a mettere il dipinto direttamente in relazione con la cerchia di filosofici neoplatonici frequentata da Botticelli fu Aby Warburg nel 1893, che lesse la Primavera come la trasposizione di un distico di Agnolo Poliziano, ricco di citazioni letterarie antiche. Sarebbe quindi la rappresentazione di Venere dopo la nascita (raffigurata nell'altro celebre dipinto della serie), durante l'arrivo nel suo regno[2].
Ernst Gombrich nel 1945, poi perfezionato negli anni cinquanta da Wind e negli anni sessanta da Panofsky, lesse la Primavera come addirittura il manifesto del sodalizio estetico e artistico dell'Accademia di Careggi. Vi si narrerebbe come l'amore, nei suoi diversi gradi, arrivi a staccare l'uomo dal mondo terreno per volgerlo a quello spirituale[2].
La scena si svolgerebbe nel giardino sacro di Venere, che la mitologia collocava nell'isola di Cipro, come rivelano gli attributi tipici della dea sullo sfondo (per es. il cespuglio di mirto alle sue spalle) e la presenza di Cupido e Mercurio a sinistra in funzione di guardiano del bosco, che infatti tiene in mano un caduceo per scacciare le nubi della pioggia (anche se egli viene insolitamente raffigurato in una posizione che lo rende estraneo al resto della scena). Le Tre Grazie rappresentavano tradizionalmente le liberalità, ma la parte più interessante del dipinto è quella costituita dal gruppo di personaggi sulla destra, con Zefiro, la ninfa Cloris e la dea Flora, divinità della fioritura e della giovinezza, protettrice della fertilità. Zefiro e Clori rappresenterebbero la forza dell'amore sensuale e irrazionale, che però è fonte di vita (Flora) e, tramite la mediazione di Venere ed Eros, si trasforma in qualcosa di più perfetto (le Grazie), per poi spiccare il volo verso le sfere celesti guidato da Mercurio[2].
Oltre alle teorie di Marsilio Ficino e la poetica del Poliziano, Botticelli dovette ispirarsi anche alla letteratura classica (Ovidio e Lucrezio), soprattutto per quanto riguarda la metamorfosi di Cloris in Flora; tuttavia, il centro focale della composizione è Venere, che secondo l'ideologia neoplatonica sarebbe la rappresentazione figurata del suo mondo secondo il seguente schema:
  • Venere = Humanitas, ovvero le attività spirituali dell'uomo
  • Tre Grazie = fase operativa dell'Humanitas'
  • Mercurio = la Ragione, che guida le azioni dell'uomo allontanando le nubi della passione e dell'intemperanza
  • Zefiro-Cloris-Flora = la Primavera, simbolo della natura non tanto intesa come stagione dell'anno quanto forza universale ciclica e dal potere rigenerativo.
Per Panofsky la Venere della Primavera sarebbe la Venere celeste, vestita, simbolo dell'amore spirituale che spinge l'uomo verso l'ascesi mistica, mentre la Nascita raffigurerebbe la Venere terrena, nuda, simbolo dell'istintualità e della passione che ricacciano gli individui verso il basso[2].
Numerose sono le proposte di lettura per le Grazie. Il loro movimento di alzare e abbassare le braccia ricorda filosoficamente il principio base dell'amore (da Seneca), la Liberalità, in cui ciò che si dà viene restituito[4]. Esse possono rappresentare anche tre aspetti dell'amore, descritti da Marsilio Ficino: da sinistra, la Voluttà (Voluptas), dalla capigliatura ribelle, la Castità (Castitas), dallo sguardo malinconico e dall'atteggiamento introverso, e la Bellezza (Pulchritudo), con al collo una collana che sostiene un'elegante prezioso pendente e dal velo sottile che le copre i capelli, verso la quale sembra stare per scoccare la freccia Cupido[4]. Secondo una rilettura di Esiodo esse sarebbero invece Aglaia, lo splendore, Eufrosine, la gioia e Talia, la prosperità.
Claudia Villa (italianista contemporanea) è portata a considerare che i fiori, secondo una tradizione che ha origine in Duns Scoto, costituiscono l'ornamento del discorso e identifica il personaggio centrale nella Filologia, per cui riferisce la scena alle Nozze di Mercurio e Filologia rovesciando anche le identità dei personaggi che stanno alla nostra destra. Così la figura dalla veste fiorita è da vedersi come la Retorica, la figura che sembra entrare impetuosamente nella scena come Flora generatrice di poesia e di bel dire, mentre il personaggio alato, che sembra sospingere più che attrarre a sé la fanciulla, sarebbe un genio ispiratore.
In tale contesto interpretativo diventa difficile giustificare i colori freddi con cui è rappresentato il personaggio, a meno che l'autore non volesse affidare a questa scelta la smaterializzazione e il carattere spirituale dell'ispirazione poetica. Può risultare invece più comprensibile il disinteresse alla scena che sembra mostrare Mercurio, dio dei Mercanti.

Altre letture

Un'ulteriore interpretazione, meno fortunata, di Ernst Gombrich suggerisce un riferimento al Giudizio di Paride tratto dall'Asino d'oro di Apuleio.
Studi assai interessanti sono stati fatti sui rapporti dimensionali delle parti della scena in riferimento a regole musicali. Altri hanno ipotizzato che il dipinto sia una sorta di calendario agreste abbreviato della bella stagione[2]: da febbraio (Zefiro) a settembre (Mercurio), nell'augurio di una primavera senza fine[6].
Carmelo Ciccia vi ha letto un'illustrazione del poemetto latino Pervigilium Veneris (I-IV secolo) riguardo alla figura di Flora, leggibile come allegoria della città siciliana di Ibla che nei versi 49-52 è descritta come intenta a versare tutti i fiori prodotti dall'anno e ad indossare una veste di fiori grande quanto la piana etnea.

Stile

Nell'opera sono leggibili alcune caratteristiche stilistiche tipiche dell'arte di Botticelli: innanzitutto l'innegabile ricerca di bellezza ideale e armonia, emblematiche dell'umanesimo, che si attua nel ricorso in via preferenziale al disegno e alla linea di contorno (derivato dall'esempio di Filippo Lippi). Ciò genera pose sinuose e sciolte, gesti calibrati, profili idealmente perfetti. La scena idilliaca viene così ad essere dominata da ritmi ed equilibri formali sapientemente calibrati, che iniziano dal ratto e si esauriscono nel gesto di Mercurio[7]. L'ondeggiamento armonico delle figure, che garantisce l'unità della rappresentazione, è stato definito "musicale"[2].
In ogni caso l'attenzione al disegno non si risolve mai in effetti puramente decorativi, ma mantiene un riguardo verso la volumetria e la resa veritiera dei vari materiali, soprattutto nelle leggerissime vesti[2].
L'attenzione dell'artista è tutta focalizzata sulla descrizione dei personaggi, e in secondo luogo delle specie vegetali accuratamente studiate, forse dal vero, sull'esempio di Leonardo da Vinci che in quell'epoca era già artista affermato. Minore cura è riservata, come al solito in Botticelli, allo sfondo, con gli alberi e gli arbusti che creano una quinta scura e compatta. Il verde usato, come accade in altre opere dell'epoca, doveva originariamente essere più brillante, ma col tempo si è ossidato arrivando a tonalità più scure.
Le figure spiccano con nitidezza sullo sfondo scuro, con una spazialità semplificata, sostanzialmente piatta o comunque poco accennata, come negli arazzi. Non si tratta di un richiamo verso l'ormai lontana fantasia del mondo gotico, come una certa critica artistica ha sostenuto[7], ma piuttosto dimostra l'allora nascente crisi degli ideali prospettici e razionali del primo Quattrocento, che ebbe il suo culmine in epoca savonaroliana (1492-1498) ed ebbe radicali sviluppi nell'arte del XVI secolo, verso un più libero inserimento delle figure nello spazio[5].

Tecnica 

La tecnica usata nel dipinto è estremamente accurata, a partire dalla sistemazione delle assi di notevole dimensioni che, unite tra loro, formano il supporto[6]. Su di esse Botticelli stese una preparazione diversificata a seconda delle zone: beige chiara dove vennero dipinte le figure e nera per la vegetazione. Su di essa il pittore stese poi la colorazione a tempera in strati successivi, arrivando a effetti di grande leggerezza[6].